IL CIGNO

28 aprile 2014

UNA PAGINA DI LAURA CONTI

25 APRILE

Laura Conti, partigiana, medico, studiosa di scienza, scrittrice, divulgatrice, tra i fondatori di Legambiente, racconta della sua esperienza nel campo di transito di Bolzano dove era stata internata dopo l’arresto, nel libro “La condizione sperimentale”.

Neppure per Antonio il cibo è cibo. Lui vorrebbe fare del cibo una cosa diversa: uno strumento per riprendere dignità e responsabilità. Se potessimo riallacciare i contatti col Comitato di liberazione di città, dice Antonio, il Comitato troverebbe il modo di mandarci in Campo dei viveri: e questi, non solo potremmo distribuirli fra i compagni, ma per di più farebbero abbassare i prezzi del mercato nero. Ma davvero gli interessa tanto il cibo? Si è rintanato nella mia cuccetta, e sottovoce sussurra: calcoli di calorie e di volume, il massimo di calorie nel minimo di volume, per facilitare l’ingresso in Campo degli aiuti della città. Per lui questo è un modo di contravvenire alla disciplina del filo spinato, un antidoto contro il veleno nascosto nell'esca che ci viene tesa, o spalmata sul palmo della mano. Procurarsi altro cibo da quello che ci concedono, equivale per lui a un’imboscata partigiana. E di più: quel poco zucchero o burro che riuscissimo a procurarci, secondo i suoi piani, ci darebbe delle responsabilità; la responsabilità di custodirlo, di amministrarlo, di suddividerlo; la responsabilità di stabilire dei criteri per la distribuzione, di fare delle liste di priorità, di controllare che nessuno riceva zucchero per la seconda volta prima che sia di nuovo il suo turno, e così via. Per Antonio il cibo sarebbe, volta a volta, una battaglia vinta, una nuova responsabilità, il pilastro di una società organizzata, che intorno ad esso costruirebbe i lineamenti di un’ordinata fisionomia, estraendoli dall'amorfo grigiore di una massa.

Gli ho chiesto: «Se un giorno arrivasse un chilo di zucchero dal Comitato di liberazione di città, un giorno in cui nessuno di noi tremila avesse qualcosa da mangiare; se dunque quel chilo di zucchero fosse l’unica risorsa disponibile; se ti rendessi conto che quel chilo di zucchero, diviso fra tutti gli affamati, non potrebbe salvarne nessuno – e invece, distribuito fra pochi, potrebbe salvare loro la vita: quel giorno, che uso faresti di quel chilo di zucchero?». Mi ha risposto: «Deciderà il Comitato di Campo». Non ha usato il condizionale, ma l’indicativo futuro, perché sa benissimo che l’ipotesi può verificarsi. Deciderà il Comitato, e questo è sufficiente; l’importante non è la natura della decisione, ma il modo in cui la decisione viene presa.
Lo zucchero non è importante, ma che la vita degli uomini venga decisa da un comitato clandestino, che attraverso la formazione di un comitato clandestino e l’adeguarsi al suo decidere gli internati prendano da sé le decisioni che riguardano la loro vita, questo è l’importante.
Proprio questo, credo, è il carattere tipico ed esclusivo della nostra situazione: questa lucidità e ragionevolezza alla quale siamo giunti è l’unico, degli elementi della nostra esistenza, a farne qualcosa di non ripetibile e tuttavia fecondo. Quest’ardua ragionevolezza, questa lucida astrazione, questo orgoglioso miracolo di ricostruirci, dal nulla in cui ci avevano precipitati, gettando nella coscienza dell’uomo la sua propria fondazione, è la nostra impresa, è l’eredità che lasceremo a chi verrà dopo di noi. Affilo la matita e scrivo in caratteri accurati, su una cartina di sigarette, il nostro testamento: il pane non è pane.

La condizione sperimentale, Laura Conti, Mondadori, 1965, pp39-41